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quinta-feira, 1 de setembro de 2011

Eugenio Montale


E U G E N I O     M O N T A L E


...E andando nel sole che abbaglia   
 sentire con triste meraviglia
  com'è tutta la vita e il suo travaglio...
 






 
Ripenso il tuo sorriso, ed è per me un'acqua limpida

a K.

Ripenso il tuo sorriso, ed è per me un'acqua limpida
scorta per avventura tra le pietraie d'un greto,
esiguo specchio in cui guardi un'ellera e i suoi corimbi;
e su tutto l'abbraccio di un bianco cielo quieto.

Codesto è il mio ricordo; non saprei dire, o lontano,
se dal tuo volto si esprime libera un'anima ingenua,
vero tu sei dei raminghi che il male del mondo estenua
e recano il loro soffrire con sé come un talismano.

Ma questo posso dirti, che la tua pensata effigie
sommerge i crucci estrosi in un'ondata di calma,
e che il tuo aspetto s'insinua nella memoria grigia
schietto come la cima di una giovane palma...
 

Meriggiare pallido e assorto
presso un rovente muro d'orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.

Nelle crepe del suolo o su la veccia
spiar le file di rosse formiche
ch'ora si rompono ed ora s'intrecciano
a sommo di minuscole biche.

Osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi.

E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com'è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.
 
"Spesso il male di vivere ho incontrato"

Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l'incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.

Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.

 
 Portami il girasole
Portami il girasole ch'io lo trapianti
nel mio terreno bruciato dal salino,
e mostri tutto il giorno agli azzurri specchianti
del cielo l'ansietà del suo volto giallino.
Tendono alla chiarità le cose oscure,
si esauriscono i corpi in un fluire
di tinte: queste in musiche.
Svanire è dunque la ventura delle venture.
Felicità raggiunta, si cammina

Felicità raggiunta, si cammina
per te su fil di lama.
Agli occhi sei barlume che vacilla,
al piede, teso ghiaccio che s'incrina;
e dunque non ti tocchi chi più t'ama.
Se giungi sulle anime invase
di tristezza e le schiari, il tuo mattino
è dolce e turbatore come i nidi delle cimase
Ma nulla paga il pianto del bambino
a cui fugge il pallone tra le case. 

 
Non recidere forbice quel volto

Non recidere, forbice, quel volto,
solo nella memoria che si sfolla,
non far del grande suo viso in ascolto
la mia nebbia di sempre.

Un freddo cala...Duro il colpo svetta.
E l'acacia ferita da sé scrolla
il guscio di cicala
nella prima belletta di Novembre. 
 
Forse un mattino andando in un'aria di vetro
 
Forse un mattino andando in un'aria di vetro,
arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:
il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
di me, con un terrore di ubriaco.
 
Poi come s'uno schermo, s'accamperanno di gitto
alberi case colli per l'inganno consueto.
Ma sarà troppo tardi; ed io me n'andrò zitto
tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.
 
Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale
Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino. Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio. Il mio dura tuttora, né più mi occorrono le coincidenze, le prenotazioni, le trappole, gli scorni di chi crede che la realtà sia quella che si vede.
Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio non già perchè con quattr'occhi forse si vede di più. Con te le ho scese perchè sapevo che di noi due le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate, erano le tue.
 
Hai dato il mio nome ad un albero? Non è poco
Hai dato il mio nome ad un albero? Non è poco pure non mi rassegno a restar ombra, o tronco di un abbandono nel suburbio. Io il tuo l'ho dato a un fiume, a un lungo incendio, al crudo gioco della mia sorte, alla fiducia sovrumana con cui parlasti al rospo uscito dalla fogna, senza orrore o pietà o tripudio, al respiro di quel forte e morbido tuo labbro che riesce, nominando, a creare; rospo fiore erba scoglio - quercia pronta a spiegarsi su di noi quando la pioggia spollina i carnosi petali del trifoglio e il fuoco cresce.
Giorno e notte
Anche una piuma che vola può disegnare la tua figura, o il raggio che gioca a rimpiattino tra i mobili, il rimando dello specchio di un bambino, dai tetti. Sul giro delle mura strascichi di vapore prolungano le guglie dei pioppi e giù sul trespolo s'arruffa il pappagallo dell'arrotino. Poi la notte afosa sulla piazzola, e i passi, e sempre questa dura fatica di affondare per risorgere eguali da secoli, o da istanti, d'incubi che non possono ritrovare la luce dei tuoi occhi nell'antro incandescente - e ancora le stesse grida e i lunghi pianti sulla veranda se rimbomba improvviso il colpo che t'arrossa la gola e schianta l'ali, o perigliosa annunziatrice dell'alba, e si destano i chiostri e gli ospedali a un lacerìo di trombe...
 
Casa sul mare  
ll viaggio finisce qui: nelle cure meschine che dividono l’anima che non sa più dare un grido. Ora I minuti sono eguali e fissi come I giri di ruota della pompa. Un giro: un salir d’acqua che rimbomba. Un altro, altr’acqua, a tratti un cigolio.  
Il viaggio finisce a questa spiaggia che tentano gli assidui e lenti flussi. Nulla disvela se non pigri fumi la marina che tramano di conche I soffi leni: ed è raro che appaia nella bonaccia muta tra l’isole dell’aria migrabonde la Corsica dorsuta o la Capraia.
Tu chiedi se così tutto vanisce in questa poca nebbia di memorie; se nell’ora che torpe o nel sospiro del frangente si compie ogni destino. Vorrei dirti che no, che ti s’appressa l’ora che passerai di là dal tempo; forse solo chi vuole s’infinita, e questo tu potrai, chissà, non io. Penso che per i più non sia salvezza, ma taluno sovverta ogni disegno, passi il varco, qual volle si ritrovi. Vorrei prima di cedere segnarti codesta via di fuga labile come nei sommossi campi del mare spuma o ruga. Ti dono anche l’avara mia speranza. A’ nuovi giorni, stanco, non so crescerla: l’offro in pegno al tuo fato, che ti scampi.  
Il cammino finisce a queste prode che rode la marea col moto alterno. Il tuo cuore vicino che non m’ode salpa già forse per l’eterno.
 
Altro effetto di luna
La trama del carrubo che si profila nuda contro l'azzurro sonnolento, il suono delle voci, la trafila delle dita d'argento sulle soglie,
la piuma che si invischia, un trepestìo sul molo che si scioglie e la feluca già ripiega il volo con le vele dimesse come spoglie.
Al mare (o quasi)


L' ultima cicala stride
sulla scorza gialla dell'eucalipto
i bambini raccolgono pinòli
indispensabili per la galantina
un cane alano urla dall' inferriata
di una villa ormai disabitata
le ville furono costruite dai padri
ma i figli non le hanno volute
ci sarebbe spazio per centomila terremotati
di qui non si vede nemmeno la proda
se può chiamarsi così quell' ottanta per cento
ceduta in uso ai bagnini
e sarebbe eccessivo pretendervi
una pace alcionica
il mare è d'altronde infestato
mentre i rifiuti in totale
formano ondulate collinette plastiche
esaurite le siepi hanno avuto lo sfratto
i deliziosi figli della ruggine
gli scriccioli o reatini come spesso
li citano i poeti. E c'è anche qualche boccio
di magnolia l' etichetta di un pediatra
ma qui i bambini volano in bicicletta
e non hanno bisogno delle sue cure
Chi vuole respirare a grandi zaffate
la musa del nostro tempo la precarietà
può passare di qui senza affrettarsi
è il colpo secco quello che fa orrore
non già l' evanescenza il dolce afflato del nulla
Hic manebimus se vi piace non proprio
ottimamente ma il meglio sarebbe troppo simile
alla morte (e questa piace solo ai giovani).
 

 
La belle dame sans merci

 


Certo i gabbiani cantonali hanno atteso invano


le briciole di pale che io gettavo


sul tuo balcone perché tu sentissi


anche chiusa nel sonno le loro strida.


 


Oggi manchiamo all'appuntamento tutti e due


e il nostro breakfast gela tra cataste


per me di libri inutili e per te di reliquie


che non so: calendari, astucci, fiale e creme.


 


Stupefacente il tuo volto s'ostina ancora, stagliato


sui fondali di calce del mattino;


ma una vita senz'ali non lo raggiunge e il suo fuoco


soffocato è il bagliore dell'accendino.

 


 
Sulla colonna più alta
Moschea di Damasco

 


Dovrà posarsi lassù


il Cristo giustiziere


per dire la sua parola.


Tra il pietrisco dei sette greti, insieme


s'umilieranno corvi e capinere,


ortiche e girasoli.


 


Ma in quel crepuscolo eri tu sul vertice:


scura, l'ali ingrommate, stronche dai


geli dell'Antilibano; e ancora


il tuo lampo mutava in vischio i neri


diademi degli sterpi, la Colonna


sillabava la Legge per te sola


L'ARCA

 


La tempesta di primavera ha sconvolto


l'ombrello del salice,


al turbine d'aprile


s'è impigliato nell'orto il vello d'oro


che nasconde i miei morti,


i miei cani fidati, le mie vecchie


serve - quanti da allora


(quando il salce era biondo e io ne stroncavo


le anella con la fionda) son calati,


vivi, nel trabocchetto. La tempesta


certo li riunirà sotto quel tetto


di prima, ma lontano, più lontano


di questa terra folgorata dove


bollono calce e sangue nell'impronta


del piede umano. Fuma il ramaiolo


in cucina, un suo tondo di riflessi


accentra i volti ossuti, i musi aguzzi


e li protegge in fondo la magnolia


se un soffio ve la getta. La tempesta


primaverile scuote d'un latrato


di fedeltà la mia arca, o perduti

 


 
DA "LA BUFERA E ALTRO"
La Bufera

 


La bufera che sgronda sulle foglie


dure della magnolia i lunghi tuoni


marzolini e la grandine,


 


(i suoni di cristallo nel tuo nido


notturno ti sorprendono, dell'oro


che s'è spento sui mogani, sul taglio


dei libri rilegati, brucia ancora


una grana di zucchero nel guscio


delle tue palpebre)


 


il lampo che candisce


alberi e muro e li sorprende in quella


eternità d'istante - marmo manna


e distruzione - ch'entro te scolpita


porti per tua condanna e che ti lega


più che l'amore a me, strana sorella, -


e poi lo schianto rude, i sistri, il fremere


dei tamburelli sulla fossa fuia,


lo scalpicciare del fandango, e sopra


qualche gesto che annaspa...


Come quando


ti rivolgesti e con la mano, sgombra


la fronte dalla nube dei capelli,


 


mi salutasti - per entrar nel buio.


 



 
NUOVE STANZE

 


Poi che gli ultimi fili di tabacco


al tuo gesto si spengono nel piatto


di cristallo, al soffitto lenta sale


la spirale del fumo


che gli alfieri e i cavalli degli scacchi


guardano stupefatti; e nuovi anelli


la seguono, più mobili di quelli


delle tua dita.


 


La morgana che in cielo liberava


torri e ponti è sparita


al primo soffio; s'apre la finestra


non vista e il fumo s'agita. Là in fondo,


altro stormo si muove: una tregenda


d'uomini che non sa questo tuo incenso,


nella scacchiera di cui puoi tu sola


comporre il senso.


 


Il mio dubbio d'un tempo era se forse


tu stessa ignori il giuoco che si svolge


sul quadrato e ora è nembo alle tue porte:


follìa di morte non si placa a poco


prezzo, se poco è il lampo del tuo sguardo


ma domanda altri fuochi, oltre le fitte


cortine che per te fomenta il dio


del caso, quando assiste.


 


Oggi so ciò che vuoi; batte il suo fioco


tocco la Martinella ed impaura


le sagome d'avorio in una luce


spettrale di nevaio. Ma resiste


e vince il premio della solitaria


veglia chi può con te allo specchio ustorio


che accieca le pedine opporre i tuoi


occhi d'acciaio.

 
 

Da "Le Occasioni"
Verso Vienna

 


Il convento barocco


di schiuma e di biscotto


adombrava uno scorcio d'acque lente


e tavole imbandite, qua e là sparse


di foglie e zenzero.


 


Emerse un nuotatore, sgrondò sotto


una nube di moscerini,


chiese del nostro viaggio,


parlò a lungo del suo d'oltre confine.


 


Additò il ponte in faccia che si passa


(informò) con un solo di pedaggio.


Salutò con la mano, sprofondò,


fu la corrente stessa...


Ed al suo posto,


battistrada balzò da una rimessa


un bassotto festoso che latrava,


 


fraterna unica voce dentro l'afa.


 
PIOVE
 
Piove. È uno stillicidio
senza tonfi
di motorette o strilli
di bambini.
Piove
da un ciclo che non ha
nuvole.
Piove
sul nulla che si fa
in queste ore di sciopero
generale.
Piove
sulla tua tomba
a San Felice
a Ema
e la terra non trema
perché non c'è terremoto
né guerra.
Piove
non sulla favola bella
di lontane stagioni,
ma sulla cartella
esattoriale,
piove sugli ossi di seppia,
e sulla greppia nazionale.
Piove
sulla Gazzetta Ufficiale
qui dal balcone aperto,
piove sul Parlamento,
piove su via Solferino,
piove senza che il vento
smuova le carte.
Piove
in assenza di Ermione
se Dio vuole,
piove perché l'assenza
è universale
e se la terra non trema
è perché Arcetri a lei
non l'ha ordinato.
Piove sui nuovi epistèmi
del primate a due piedi,
sull'uomo indiato, sul cielo,
ottimizzato, sul ceffo
dei teologi in tuta
o paludati,
piove sul progresso
della contestazione,
piove sui works in regress,
piove
sui cipressi malati
del cimitero, sgocciola
sulla pubblica opinione.
Piove, ma dove appari
non è acqua né atmosfera,
piove perché se non sei
è solo la mancanza
e può affogare.
 
Antico, sono ubriacato dalla voce ch'esce dalle tue bocche
quando si schiudono come verdi campane
e si ributtano indietro e si disciolgono.
La casa delle mie estati lontane,
t'era accanto, lo sai,
là nel paese dove il sole cuoce
e annuvolano l'aria le zanzare.
Come allora oggi in tua presenza impietro, mare,
ma non più degno mi credo del solenne ammonimento del tuo respiro.
Tu m'hai detto primo
che il piccino fermento del mio cuore
non era che un momento del tuo;
che mi era in fondo la tua legge rischiosa:
esser vasto e diverso
e insieme fisso:
e svuotarmi così d'ogni lordura
come tu fai che sbatti sulle sponde
tra sugheri alghe asterie
le inutili macerie del tuo abisso.

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